Giacobinismo, PCI, Stato: una lunga linea storica
di Salvatore Sechi
A marzo la crisi di governo ha sancito la fine dell’accordo con la DC. Credo che la stessa strategia del compromesso storico ne risulti pregiudicata aprendo la strada ad una politica di opposizione della sinistra. Un’analisi approssimativa e, in sostanza, sbagliata della natura della DC e del sistema di potere non poteva portare che ai risultati politici (il blocco dell’iniziativa della sinistra) ed elettorali (la sensibile flessione del 3 e 10 giugno 1979), che si conoscono. Ma ormai questa esperienza è dietro le nostre spalle. Senza rimpianti se il PCI e la sinistra unita sapranno trarne la lezione. È perciò possibile riflettere a mente fredda anche sulle polemiche suscitate dall’accenno di Marco Pannella a via Rasella come sugli argomenti che sono stati avanzati per giustificare il voto a favore della legislazione autoritaria legata al nome di Oronzo Reale.
Posso ora confessare ciò che non ho fatto per non creare la minima difficoltà al partito in cui milito, in un momento cruciale qual è sempre una consultazione elettorale. L’indignazione per lo stile quarantottesco e per il contenuto della polemica mi hanno indotto a votare SI per il referendum sulla legge Reale e ad astenermi sul finanziamento pubblico ai partiti. In realtà in quei mesi, nel partito, discutere è stato molto difficile. Dal mio segretario di federazione mi è stata rivolta l’accusa – costruita sul puro privilegio del potere, tanto più irresponsabile quanto più deriva dal metodo giacobino della cooptazione – di essere in bilico tra la democrazia e i suoi nemici. Considero questo triste episodio un sintomo inquietante di un fenomeno più generale.
Mi riferisco alla cultura politica in alcuni settori del PCI, pronta a rispondere al terrorismo con le sole armi dell’ordine pubblico; terrorismo che viene demonizzato, invece di cercare anche di capirlo. Per combatterlo meglio, con una strategia sociale ed una linea politica diversa.
Via Rasella: una lucida provocazione
Temo che la stessa cultura dell’intolleranza sia al fondo delle accuse di fascismo mosse a Pannella per i fatti di via Rasella. È un metodo di polemica politica che mi ripugna. Nasce dalla violenza. Può portare alla violenza, fino a fare dell’amico e del compagno il nemico.
Quella di Pannella è stata una lucida provocazione politica. Non perché sia un errore (anzi è un dovere), spingere fino in fondo la critica dei comportamenti violenti di cui è impastata la nostra vita quotidiana e la stessa storia del movimento operaio. L’errore è stato nel non aver previsto (e di esserne quindi sorpreso) l’aspra reazione di rigetto del PCI. L’attacco di Pannella ha colpito i valori, il senso comune di certezza su cui vive la cultura dell’organizzazione (il centralismo democratico). Se all’università insieme alle Lettere dei caduti della Resistenza, non avessi letto le lettere dei caduti della Repubblica Sociale Italiana e non avessi avuto come maestri antifascisti e coscienze morali come Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone e Franco Venturi, sono certo che anch’io avrei reagito come Giorgio Amendola, Luciano Lama, Antonello Trombadori.
Via Rasella è stata un’azione di guerra contro truppe d’occupazione straniere. La spaventosa rappresaglia dei nazisti è anch’esso un atto di guerra. Inutile dire che, come Pannella e voi tutti, sto dalla parte dei partigiani, dell’antifascismo. Ma non mi pare questo il punto.
La questione è la diversa logica politica e culturale che è sottesa alle scelte e ai comportamenti dei radicali e dei comunisti. Voi volete parlare al cuore, alla coscienza dei cittadini, degli uomini. Il messaggio, la guida, la testimonianza esemplare (penso ai digiuni) sono la vostra arma fondamentale, anche se non esclusiva. Un comunista parla invece ai partiti, al sociale organizzato, alle classi, strati, settori di classe; non al singolo individuo. Sono perciò diverse, profondamente, le storie dei due partiti. Il Pci, come il movimento operaio, viene da una storia di violenza di classi subite. Sa che ogni passo sbagliato, ogni metodo di lotta “deviante” dalla norma, l’avversario te lo fa pagare. Perciò dagli statuti della prima internazionale fino a quelli del Comintern, oggi del PCI, disciplina, compattezza, unità, moralità pubblica e privata sono declinati in termini di superstizione autoritaria.
Il rapporto giacobino tra gruppo dirigente e militante di base, tra partito e società, il richiamo incessante allo “stato d’assedio”, al “nemico”, viene giustificato con riti, miti ideologici: il socialismo “inevitabile”, il rinnovamento nella continuità, l’unità del gruppo dirigente, ecc… Sono convinto che tra queste pratiche pedagogiche-illuministiche (che fanno parte dei caratteri storici della classe dirigente italiana dalla Destra post-unitaria in poi), il “sovversivismo” delle masse in Italia avrebbe avuto un esito bakuninistico, antistatuale. È uno dei meriti storici del PCI essere invece riuscito a democratizzare, costituzionalizzandola, la domanda di cambiamento che proviene dalla società, senza integrarlo nel sistema.
Ma oggi i luoghi, i linguaggi, i valori e soprattutto i soggetti sociali della politica sono radicalmente mutati. Una sonda sensibile della modernità, laicità del “sociale italiano”, sono il successo delle vostre battaglie, dei vostri metodi (non tutti, per la verità) di fare politica. Perciò ho partecipato all’iniziativa sulla fame nel mondo e durante la campagna elettorale ho accettato di discutere e “polemizzare” nelle radio. Sono perciò lieto che anche il compagno dirigente (e lo stesso burocrate del consenso, malato di conformismo), abbia imparato la lezione. Dagli insulti e dall’arma della discriminazione nei confronti di quanti vi hanno considerato un problema reale è passato a trattare con voi sul piano politico e su quello culturale (mi riferisco all’inserto su Il Contemporaneo).
Violenza è l’ideologia del lavoro
Il mutamento delle forme e delle sedi politiche, richiede una “critica della violenza”, oltre ad un’urgente critica dell’ideologia del lavoro. Pannella ha ragione quando punta ad una rivoluzione culturale: “Penso che nel momento in cui il terrorismo e la violenza inducono disperazione e sono il frutto di una strategia, tutta la storia della violenza vada ripercorsa e rivista”. Questo mi pare il punto importante. Se via Rasella nella “vecchia” destra e nella vecchia sinistra e vissuta come un’eredità notarile, secondo lo schema della tragedia greca classica, bisogna saper costruire una iniziativa politica capace di porre fine alla perpetuazione della fonte di antiche divisioni e contese di parte.
È assurdo che ortodossie immobili, frutto di un contenzioso storiografico travestito di spietato dovere, vedano nemici da passare per le armi i giovani di Pino Rauti, dell’Autonomia, e i nostri compagni. Tra fascismo e antifascismo la separazione deve avvenire su un progetto politico e non su verdetti di assoluzione o di condanna di episodi del passato. Ai miei studenti dell’università questi contrasti non dicono più nulla. Sono invece un problema, che li tocca da vicino, le forme di lotta dei metalmeccanici, la violenza della conflittualità padronale e quindi operaia delle istituzioni, della disoccupazione, della droga, dei missili, delle centrali nucleari, dell’organizzazione del lavoro, ecc. Come per i partigiani e per le loro vittime (soggettivamente innocenti) di via Rasella, sembra che nel tardo capitalismo gli uomini siano tornati ad essere oggetti: “pietà l’è morta”, dice bene Bobbio. Nell’attaccare la catena di montaggio, l’inferno delle condizioni di vita dell’operaio, i comunisti combattono su un altro terreno la battaglia per l’abolizione della violenza che i radicali combattono ponendo il problema di una diversa morale, di un diverso diritto, di un diverso Stato.